lunedì 14 giugno 2010

Caravan – Miniserie a fumetti

Michele Medda è un bravo sceneggiatore, l’ho sempre detto io. Chiunque abbia la sventura di parlare con me mi ha sentito almeno una volta inneggiare ai Dylan Dog n. 198 e 199. Bene, sono sceneggiati da Medda, come anche altri Dylan Dog. In più Medda compone il trio sardo che ha creato Nathan Never, serie tanto interessante e purtroppo da me poco frequentata. Medda è un autore di razza (per usare un’espressione alla moda vagamente inquietante) e lo ha dimostrato pienamente con la miniserie Caravan.
Chi segue le sorti della Sergio Bonelli Editore (chi non lo fa cominci) saprà benissimo che negli ultimi anni è stata lanciata una nuova modalità di pubblicazione: la miniserie. Ne sono già uscite un po’ e credo che per ora il risultato sia molto soddisfacente. All’inizio io ero titubante (mi piace l’idea di un fumetto autoconclusivo, ma mi piace anche l’idea di un fumetto che cresce e si dilata con gli anni) ed è stato quasi un caso che io abbia deciso di comprarmi il primo Caravan. Avevo appena letto circa metà di una miniserie precedente (ero riuscito a raggranellare solo pochi numeri) e mi aveva colpito favorevolmente la possibilità di dare una storia unitaria ad una serie. L’idea di pubblicare un “romanzo” a fumetti.
Caravan si è rivelato un acquisto molto saggio. Mi è piaciuto moltissimo. La storia è concertata in maniera magistrale e si capisce perfettamente che va letto come un lavoro unitario. Ne sogno anzi la pubblicazione in un volumone gigantesco che darebbe proprio il senso fisico dell’unicità e della ponderosità dell’opera.
Opera in quanto prodotto, prima di tutto (prima di tutto per me che leggo fumetti per leggere storie), di un unico autore, il Michele Medda a me già gradito. Medda racconta una storia (la racconta bene), trasmettendoci contemporaneamente riflessioni e spunti di visione del mondo.
La vita regolare e appartata di Nest Point, tranquilla cittadina della provincia americana, viene sconvolta dall’apparizione di misteriose nuvole. Mentre la popolazione si interroga ancora sul fenomeno, temendo un’apocalisse o un disastro di quelli che vanno tanto di moda in questi anni, arrivano i militari. La città va evacuata: tutti i cittadini devono prendere i propri automezzi. La popolazione verrà spostata con un’unica carovana. Non è possibile sottrarsi all’evacuazione. Comincia così un viaggio allucinante, privo di spiegazione e significato. Gli abitanti di Nest Point non capiscono la situazione. Chiaramente alcuni non ci stanno e si ribellano in vari modi. I militari, lungi dal dare spiegazioni, riescono a tenere la situazione in pugno.
La situazione è pazzesca. L’incertezza assoluta domina e nessuno riesce a spiegare il fenomeno delle nuvole. Non resta che seguire la carovana, avanzare, seguire le direttive dei militari. Il viaggio è raccontato principalmente dal punto di vista dell’adolescente italo-americano Davide Donati che decide di tenere un diario di viaggio. Anche lui come gli altri non sa cosa sia accaduto; anche lui come gli altri viene sbalzato in una dimensione totalmente aliena (e alienata) senza capire. C’è poi un processo di presa di coscienza, un tentativo di comprendere la situazione. Dapprima Davide assiste a tentativi di ribellione, poi è coinvolto nella spontanea associazione (in cui però c’è un infiltrato) di cittadini che cercano di capire. La maturazione interna si concluderà solamente nel dodicesimo ed ultimo numero.
La trama è strana. Non sembra un fumetto. Anzi forse questo è il pregio assoluto di Caravan: quello di non sembrare un fumetto. Sembra di aver letto un telefilm americano di quelli che ci hanno ormai ampiamente invaso la televisione, fatti di cura nella caratterizzazione dei personaggi, attenzione per i dettagli e suspense al posto giusto.
Detto così sembra quasi che io voglia ridurre Caravan ad un’imitazione, ad un prodotto ibrido. Non è così. Un fumetto che riesce ad andare oltre la realtà di fumetto, oltre le comuni caratteristiche attribuite a questo mezzo espressivo, ha tutta la mia stima. Sinceramente ne ho le palle piene di fumetti che proseguono temi e motivi di una cultura diversa dalla mia e di un periodo storico ormai lontano per cui è necessario che i fumetti si assomiglino tutti perché sennò il lettore pensionato non li compra o il ragazzetto senza cervello si fa una propria idea del mondo e la smette di essere parte attivamente grigia del popolo bue.
Per me il fumetto è ben altro: è letteratura (e anche “arte”, compreso nella sua necessaria parte disegnata) e quindi cultura. Leggo un fumetto come leggo un libro: per essere calato in un mondo di cui pretendo un’attenta ricostruzione, per confrontarmi con ideali e idee estetiche ed etiche, magari diverse dalle mie. Fanculo l’intrattenimento…
Per questo sono contento di aver letto Caravan. Il soggetto di Caravan è certamente degno. Se possiamo inquadrarlo in una cornice storica (i telefilm americani adombrati in precedenza), se possiamo inserirlo nel “gusto” contemporaneo, non dobbiamo sminuirlo. Anzi. Caravan trae forza da questo suo essere prodotto di questi tempi per questi tempi, perché così è più facilmente reperibile. Quante ansie comuni, quanta identificazione possibile è ospitata! Magari Medda se non avesse creato questa serie avrebbe compilato un suo astruso zibaldone denso di sofismi e sentenze, reso pubblico solo successivamente alla sua dipartita, ed io mi sarei perso un bel fumetto.
Per questo sono contento di come finisce Caravan. Un altro tipo di finale sarebbe stato più rassicurante (più "da fumetto"), ma forse avrebbe rovinato l’intera opera. Invece letto in modo unitario Caravan regge benissimo ed il finale non lascia (solo) con l’amaro in bocca. Non è importante quello che succede (cioè sì, ha anche questo la sua importanza), è importante come succede.
Proprio da questo punto di vista la serie è ammirabile: la struttura è a mio avviso azzeccatissima. Mi piace che sia una saga corale, mi piace che ci sia l’approfondimento di così tante storie, mi piace che certe cose rimangano senza spiegazione o senza risposta. Mi piace come sono dosati gli avvenimenti. Si nota sin dal primo numero: riletto insieme al resto rasenta la perfezione. Bellissima l’idea di raccontare il passato di alcuni protagonisti in maniera abbastanza estesa. La caratterizzazione dei personaggi non si allinea certo allo stereotipo (anche se certe cose sono a causa di funzionalità di trama date per scontate: penso al tratteggio dei militari) e c’è da chiedersi quanto successo avrebbe avuto il tutto sotto forma di romanzo.
Penso che come fumetto vada molto bene. Mi piace l’idea di alternare molti disegnatori: alcuni sono risultati più vicini al mio gusto, comunque rinnovo la mia stima per la scuola italiana e per la scelta che la Sergio Bonelli Editore attua. Il fumetto italiano (per disegno) continua ad essere nettamente in vantaggio rispetto a quello americano nella mia classifica personale. Ghigno di soddisfazione di fronte al numero 6, ambientato a Firenze. Il fatto che il ponte della Carraia sia proprio il ponte della Carraia e che Piazza della Repubblica sia felicemente ritratta mi ha quasi commosso. Altro ghigno per come nello stesso numero è descritta la realtà dei fuorisede (che ci siano esperienze autobiografiche?), ma tutto questo rientra nella bravura di Medda.
Insomma approvo l’idea della miniserie a fumetti, spero che la Sergio Bonelli Editore si mantenga sana e prospera e son contento di essermi letto Caravan.

Matteo R.

Pagina dedicata al fumetto sul sito della Sergio Bonelli Editore, qui.
Blog dedicato alla serie, qui.

mercoledì 26 maggio 2010

Tra naturalismo e dimensione onirica: la trasfigurazione del paesaggio sul filo del visionario

Dante Gabriele Rossetti, Ecce ancilla Domini

L’ arte visionaria ha vissuto il suo Medioevo a partire dall’ implicita condanna del Cristianesimo, per cui la dimensione dell’ inconscio poteva esistere soltanto fino a quando rimaneva entro i confini del folklore e della decorazione: esso si faceva sostenitore invece di una produzione artistica dalla funzione propagandistica e didascalica. Con il passare dei secoli, e il progressivo imporsi di un fenomeno di laicizzazione, l’ arte non è più solo plasmatrice di anime, potente mezzo con cui la Chiesa mantiene il controllo spirituale sui suoi fedeli, ma cambia radicalmente obiettivo, e i suoi destinatari diventano gli esponenti della classe dirigente: agli artisti sarà richiesto di stimolarne la curiosità e allontanarne la noia quotidiana. La cultura romantica fra Settecento e Ottocento è quella in cui l’ arte visionaria si impone con tutta la sua forza, con la vitalità e l’ innovazione di secoli di segregazione: nelle opere di Fussli, Blake e Friedrich si colgono mondi effimeri come gli spettri dell’ irrazionale. La figura femminile pallida e malinconica introdotta dai Preraffaelliti vive a metà fra realtà e sogno, e davanti a lei in maniera lampante si intuisce che la Ragione non basta a se stessa. I simbolisti creano “quadri per sognare”, come dirà Hodler, e utilizzano la realtà sensibile come insieme da cui attingere i mezzi figurativi per esprimere l’ idea. Nel Novecento saranno i surrealisti, rivendicando le proprie radici nella tradizione visionaria precedente, a proporre nuovamente quello scavo nella psiche che si manifesterà con la definitiva e totale trasfigurazione delle figure a segni dettati dai flussi dell’ immaginazione.

Ferdinand Hodler, Il sogno

Significativo per comprendere questo processo è il percorso di trasfigurazione subìto dallo spazio paesaggistico.
Già nei quadri di Friedrich lo spazio, nonostante sia ancora raffigurato in maniera realistica, assume una dimensione che è piuttosto una raffigurazione dell’ interiorità dell’ uomo e del suo sentirsi immensamente piccolo di fronte alla grandezza e alla potenza della Natura: nel dipinto Monaco in riva al mare (1808-1809) protagonisti sono il mare e il cielo, e la figura umana sparisce in questa immensità.Ma notevole è il confronto fra i quadri di Constable Il carro del fieno (1821) e di Turner Negrieri buttano in mare morti e moribondi (1840): nell’ arco di meno di 20 anni si è passati dalla rappresentazione di un paesaggio di un realismo quotidiano alla quasi cancellazione del soggetto e dei suoi particolari, che diventano tutt’ uno con il sentimento evocato dal dipinto, il veliero è impercettibile e si confonde con i colori e le linee della bufera. Sono ormai aperte le porte di quella totale trasfigurazione che porterà l’ artista a raffigurare più che paesaggi della Natura, paesaggi dell’ anima. Ad un primo impatto ancora legati ad una sorta di realismo, i Preraffaelliti, rifacendosi a tutta quella pittura ante Raffaello, che ritenevano modello più che formale, etico e di semplicità spirituale, rivestono la stilizzazione degli ambienti di una sensibilità malinconica: ne è esempio Ecce ancilla Domini (1850) di Rossetti, in cui la ripresa raffaelliana è visibilissima nell’ impostazione arcaica ma l’ espressione di questa vergine rimanda sicuramente ad un piano terreno che esprime la sgomento tutto umano all’ annuncio dell’ arcangelo; persino ne Le nostre coste inglesi (1852) di Hunt la resa naturalistica e paesaggistica ha un preciso significato e sottolinea l’ importanza della Natura come modello di purezza e di bellezza.

Odilon Redon, Silenzio

Con il simbolismo si ha la vera e propria rottura: Hodler nel Sogno (1897) ripropone le dimensioni gerarchiche dei personaggi e, fedele alle primigene istanze del Simbolismo, utilizza solo quei segni che sono necessari ad esprimere l’ idea principale, anche nella raffigurazione del paesaggio, ridotto ad una serie di linee semplici ma evocative.
Nelle opere di Henri Rousseau, vissuto a Parigi a cavallo fra Ottocento e Novecento, la ricerca della massima purezza formale è intesa nel senso di una rappresentazione ieratica che permetteva di evidenziare il soggetto, e che rendeva l’ ambientazione del quadro attraverso segni ed immagini in un certo senso “ingenue”, come ne La zingara (1897) dove si respira un’ atmosfera quasi onirica, surreale, orientaleggiante per il notturno nel deserto e per il leone e per le vesti del personaggio, dove linee decise e marcate suggeriscono i contorni di quello che è un paesaggio che proviene dal mondo interiore e non da quello esteriore delle apparenze.
La vera e propria visionarietà si raggiunge con il surrealismo figurativo, la cui caratteristica è quella di utilizzare forme “di questo mondo” che però trasportano l’ osservatore in una dimensione che non è quella umana, ma è artificiale, composita, è quella del sogno e della casualità del subconscio, dove comunque ogni figura ha il suo significato. “Bello come l’ incontro fortuito di una macchina per cucire e di un ombrello sopra un tavolo operatorio”, così i surrealisti intendono la loro arte. Il distacco dal mondo reale si nota ne La persistenza della memoria (1931): Dalì crea attraverso un “metodo spontaneo della conoscenza irrazionale” quadri in cui non è possibile uscire dall’ ambiguità della visone; lo sfondo è ridotto ai minimi termini e non ha più niente a che vedere con il realismo che aveva animato l’ arte ottocentesca di Courbet; la Natura scompare e al suo posto appare uno spazio totalmente onirico ed irrazionale. Magritte invece preferisce non allontanarsi dalla resa realistica, ma mette in discussione lo stesso mondo reale facendo in modo che con le sue opere l’ intelligenza dell’ uomo non venga costretta entro ambiti visuali predefiniti ed imposti ma tenda alla libertà. La condizione umana (1933) è preciso dal punto di vista formale, ma si capisce subito che non ci troviamo di fronte ad uno spazio umano bensì ad uno in un certo senso allegorico in cui viene rappresentato solo ciò che è funzionale al significato ultimo.
Non solo attraverso straniamenti e stravolgimenti del reale si costruiscono spazi sovrannaturali, il visionario consiste in una disposizione d’ animo di chi guarda, e di chi dipinge ovviamente, ad andare oltre la mera raffigurazione naturalistica e a scoprire nuove dimensioni che sono non sovrumane ma tanto più umane quanto più al loro interno l’ uomo scopre qualcosa di sé.

Selvaggia M.
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